Ciao a tutti,
come state? Spero bene. Io sto passando giorni un po' difficili ma sono felice di riuscire a trovare, oltre la tristezza, la spontaneità di un sorriso e di riscoprire la calorosa vicinanza degli amici. Vi presento finalmente un racconto che scrissi lo scorso anno in occasione di un concorso cui ci aveva invitato a partecipare la nostra professoressa di italiano (in verità, sarebbe più giusto dire che ci ha costretti dandocelo come compito per le vacanze di natale, ma questi sono dettagli :P) e che io ho molto a cuore. Si trattava di un periodo in cui non scrivevo da molto e nel corso del quale mi ero convinta di non saper più scrivere o di non aver nulla di bello da raccontare. Quello che leggerete, se vorrete leggerlo, è il frutto di numerosi tentativi, e sono fiera del risultato, sebbene non sia un capolavoro. Non speravo affatto di vincere, cosa che infatti non è accaduta, ma puntavo a sciogliere alcuni nodi che intricavano la mia sicurezza.
Il concorso aveva stabilito un tema riguardo cui scrivere, quello dell'attesa. Nella sua versione originale, avevo dovuto tagliare enormemente la parte finale del racconto perché era stato prefissato un limite di caratteri (12.000 inclusi gli spazi, se ricordo bene) ed io avevo scritto troppo. Non essendoci più alcuna costrizione, la settimana scorsa mi è venuta voglia di riscrivere questo finale, che mi ha dato tanta soddisfazione e mi ha riempita di gioia (sembra assurdo ma sì...). Ero preoccupata che si sentisse il distacco tra prima e dopo, perché sono una persona molto diversa da quella che ero un anno fa e penso che lo stile evolva con la persona, ma spero davvero vi possa piacere.
Dette queste cose, buona lettura, alla prossima.
Il fiore inatteso nel tempo rimasto.
Era
una fresca giornata di inverno, il sole levandosi aveva fatto
ritirare la cupa ombra delle montagne ad est, illuminando coi suoi
primi raggi la pianura. La città sorgeva alle radici del monte,
arrampicandosi in salita per una buona parte, ed era immersa nel
verde, vi si mischiava, quasi si confondeva. Si trattava di uno dei
pochi centri urbani che teneva al rispetto per l'ambiente e al
progresso tecnologico allo stesso tempo. Il grande edificio bianco
che sorgeva a nord era, infatti, la più importante e prestigiosa
università di facoltà scientifiche della regione, mentre aree
culturali di vario genere erano disseminate un po' ovunque verso
sud-est. A occidente si sviluppava l'area più industrializzata, che
comprendeva fabbriche e uffici, ma caratterizzata soprattutto dalla
presenza della Stazione dei Treni, il più importante tramite di
comunicazione con le altre città. Alla stazione facevano capo tutte
le agenzie postali e, data l'assenza di un aeroporto, chiunque
volesse partire doveva prendere il treno o viaggiare in automobile.
La stazione era anche un luogo di incontro, c'erano sempre persone
che andavano e persone che venivano, e si affiancava al mercato -
detto del Binario 35 proprio per la sua posizione - dove si
poteva trovare sempre un po' di tutto e a buon prezzo.
La
stazione era, inoltre, il luogo dove Alice stava andando, stretta nel
suo cappotto invernale e col berretto rosso calato sui capelli fino
alle orecchie. Abitava in Via del Fiore, in uno dei quartieri
orientali, praticamente dall'altro lato della città, ma aveva un
buon motivo per voler percorrere tutta quella strada a piedi, anche
se si trattava di chilometri: arrivava una persona speciale e lei
andava a prenderla. L'arrivo del treno era previsto per mezzogiorno e
mezza, ma lei, che si svegliava presto anche durante le vacanze, alle
otto era già fuori di casa, ché non era in grado di aspettare senza
far niente. “Meglio incamminarsi” si era detta, “piuttosto che
rimanere qui a perder tempo prezioso”. Senza dubbio una volta lì
si sarebbe ritrovata con almeno un'oretta d'anticipo da gestire in
qualche modo, e il mercato avrebbe potuto sopperire alla sua indole
impaziente, distraendola.
Passeggiando nel lungo viale alberato, ad
un certo punto svoltò nella strada a destra. Vide il cartello giallo
della fermata dell'autobus lì dove sapeva ed attese che passasse il numero 13, che
l'avrebbe portata molto vicina a dove voleva andare. Arrivò e salì
con un salto energico, carica di aspettative. Dentro era pieno e si
stava stretti perfino in piedi, al punto che dopo un po' Alice
cominciò a sentire caldo. Mentre cercava di tenersi stretta al
gancio che le faceva da sostegno, improvvisamente si accorse che il
cellulare vibrava nella tasca. Si affrettò a prenderlo e, quando
lesse il numero sullo schermo, il suo viso si illuminò in un
sorriso.
«Prooonto?»
disse emozionata.
«Ciao,
cugina!» rispose la voce
dopo una leggera risata, «Ti ho svegliata, per caso?».
«Macché,
sto già venendo in stazione!» esclamò Alice a voce alta, attirando
su di sé le occhiate di chi le stava vicino. Arrossendo, abbassò il tono quasi ad un sussurro: «So che è presto ma non ce la facevo a
stare in casa».
La persona all'altro lato dello schermo rise ancora, «Sempre la solita, Ali. Ma se aspetti a casa o
aspetti in stazione cosa cambia? In ogni caso devi aspettare».
«Lo
so, ma almeno al mercato mi diverto e non rischio di farmi
aspettare».
«Come
vuoi, cugina. Noi dovremmo arrivare per le 12:30, tu cerca di non
stressarti troppo. A dopo!».
«Certo,
a dopo!».
Chiusa
la chiamata, Alice guardò il display ed erano appena le nove. "Il tempo non sa mai capire quale sia la velocità giusta". Con un
sospiro fece scivolare il cellulare nella lunga tasca del cappotto
blu e cercò nuovamente l'appiglio che aveva perso rispondendo al
telefono, per non sbilanciarsi e cadere addosso a qualcuno. Di fermata
in fermata erano molte di più le persone che salivano di quelle che
scendevano e l'aria si era fatta man mano irrespirabile. Solo quando
l'autobus giunse al capolinea vi fu un fuggi fuggi generale per
metter piede in strada. Alice ricevette un po' di gomitate e qualcuno
le pestò le scarpe, ma appena fu fuori poté finalmente respirare a
pieni polmoni e ringraziare di essere ancora viva.
“Dovevano
numerarlo 666, questo autobus. Un vero inferno”.
Sospirò,
guardandosi attorno, e individuò subito la strada da percorrere. Era
accaldata e aveva sudato molto dentro quel forno a quattro ruote, ma
non poteva togliersi la giacca e prendersi una polmonite proprio in
quel momento. Sistemandosi la borsa sulla spalla e qualche capello
che si era messo fuori posto, si incamminò per il Vicolo del
Granchio, che attraversava il quartiere etnico della città ed era
sempre pieno di profumi e odori particolari. Non era ancora arrivata
alla stazione, certo, ma era vicina, e si fermò a più di una
bancarella mentre andava, attirata da qualche piatto tipico messo in
bella mostra sotto le insegne colorate. Ogni volta sperava di
incappare in uno di quegli stand dove offrivano cibo gratis per
invogliarti ad entrare e comprare qualcosa, ma non era lei ad
occuparsi di cucina in casa e della maggior parte delle cose che
assaggiava sapeva solo che erano buone e che erano gratis, quindi
filava avanti. Ma non era lì per una visita di piacere: in verità
faceva di tutto per distrarsi. Aveva troppe energie ed era troppo
emozionata per stare ferma: si poteva dire che attendesse quel giorno
più di quanto un bambino il natale e più di qualsiasi altro
desiderabile giorno dell'anno. E l'intensità del sentimento era la
stessa, ogni volta la mattina si svegliava con la stessa gioia e la
stessa ansia. Per questo aveva bisogno di indirizzare la propria
euforia altrove, per non esplodere. Passeggiando tra i vapori e gli
stendardi svolazzanti nell'aria, ogni tanto riprendeva a camminare a
passo spedito, perché nonostante il notevole anticipo voleva
assicurarsi di non perdere troppo tempo. Ad un angolo della strada,
dove il Vicolo del Granchio cambiava nome in Vicolo della Medusa, si
imbatté in un negozio di dolci e decise di comprare qualche biscotto
da offrire anche alla zia e ai cugini, ma non resistette e buona
parte la mangiò strada facendo.
Si
ritrovò infine in una piccola piazzetta dalla quale si diramavano
altre stradine e vicoletti. Senza la minima esitazione, ne imboccò
una e proseguì finché finalmente vide delinearsi, oltre i tetti
scuri delle case, il profilo alto e possente della stazione. Alice si
mise a correre rischiando di perdere il cappello e, quando fu di
fronte al grande arco d'accesso, entrò dentro come una furia. Sul
grande schermo elettronico, tuttavia, ancora non riportavano il
binario di arrivo per il suo treno.
«Okay,
Alice. Con calma, placati! Non cominciare a fare l'isterica, sei in
una stazione, in mezzo a tanta gente. Se incontrassi qualcuno che
conosci non potresti fare altro che una cattiva figura».
Non
si era nemmeno accorta di averlo detto ad alta voce, ma vedendo che
il grande orologio segnava le 10:15 pensò che non ce l'avrebbe
fatta: non poteva certo starsene due ore e un quarto seduta su una
panchina a fissare il vuoto.
All'improvviso
avvertì nell'aria un irresistibile profumo di caffè che la distolse
immediatamente da ogni altro pensiero, subito si voltò e ricercò
con gli occhi il bar, ristorante, o venditore ambulante che
diffondesse quell'odore inebriante. Non era nessuno di questi tre,
bensì una vera e propria caffetteria. Come aveva fatto una come lei,
che non poteva stare senza almeno due tazze di caffé al giorno, a
non vederla? Il pensiero che forse berne uno in quel momento le
avrebbe fatto male non la sfiorò neanche e si fiondò verso il
bancone.
«Signore,
signore! Mi scusi, un caffè per favore!».
Uno
dei camerieri più vicini, un bel ragazzo sui venticinque anni, si
avvicinò e le sorrise amichevolmente: «Come lo vuoi?».
Alice
ci pensò un attimo, osservando la bacheca coi prezzi: «Uhm...
lungo, per favore».
«Benissimo»,
le fece l'occhiolino e si allontanò.
Lei
si tolse la giacca e attese, poggiandosi coi gomiti al bancone. Si
trattava proprio di una caffetteria carina, con i tavolini e le sedie
piene di persone che, nel caos della stazione, cercavano lì un
momento di pausa. Mentre spiava serenamente tra i volti, ne scorse
due o tre familiari, uno in particolare lo vedeva spesso in quel
periodo. Quando i loro occhi si incrociarono, Alice desiderò
sparire. Distolse lo sguardo mentre il cameriere tornava porgendogli
il caffè. Con la coda dell'occhio vide che qualcuno s'era alzato, ma
non fece in tempo a realizzare dove fosse andato che...
«Alice,
ciao! Come mai in stazione?».
Si
voltò verso il ragazzo, «Ciao, Niccolò...», poi prese la tazzina
e cominciò a bere, un po' a disagio. Niccolò era un ragazzo della
sezione D, nella classe dell'aula accanto alla sua. Era alto, con
capelli di un castano chiaro quasi biondo ed occhi scuri, e nel
complesso carino, ma da un paio di anni si era fatto un piercing al
sopracciglio e alcuni alle orecchie che ad Alice non piacevano
affatto. Vestiva sempre molto alla mano, con vestiti comodi, e la sua
aria trasandata e ribelle la inquietava leggermente. Era un'emozione
irrazionale, un pregiudizio che si era fatta a pelle, e lei odiava
etichettare gli altri a prima vista, ma non era riuscita ad evitarlo.
Non gli si era mai avvicinata di sua spontanea volontà ma da un po'
di tempo si incontravano, casualmente, in biblioteca e lui spesso le
parlava.
«Come
va, tutto bene?» domandò il ragazzo con un sorriso a trentadue
denti.
«Sì»
disse esitante, «sto aspettando Silvia, mia cugina, e mia zia:
vengono a trovarci una volta l'anno e ci tengo molto...».
«Oh,
e quando arriva il treno?».
«Tra
un bel po', temo... non so che fare».
Aveva
finito il caffè.
«Ti
andrebbe di, non so, fare un giro con me al mercato?».
Alice
lo guardò sorpresa, «Ma non sei in compagnia? Non si
offenderanno?».
L'altro
si volse a guardare indietro il gruppo di amici che rideva e giocava
a carte, poi fece spallucce: «Nah, capirai, stanno allegri loro. A
me fa piacere».
Alice
allora accennò appena un sorriso e tentò ancora, ma non riuscì a
declinare l'invito in alcun modo. Quindi accettò e si diresse alla
cassa per pagare. All'inizio Alice non sapeva come comportarsi ed era
tutta assorta nell'ansia di trovarsi sola con lui quando, d'un
tratto, lui s'arresta sul posto. Lei si volta, allarmata, e subito
domanda: «Che succede? Tutto a posto?». Lui si passa lentamente una
mano tra i capelli, dorati sotto i raggi del sole mattutino, ed ha
negli occhi vispi un fondo di indecisione.
«Uhm...
no, scusa, mi era venuta in mente una cosa ma non fa nulla» disse
infine, «Andiamo?».
Alice
annuì e si strinse nel cappotto. Le vetrate che componevano la
facciata soprastante all'arco d'ingresso della stazione riflettevano
sul pavimento e sulle teste delle persone i loro colori accesi, ma
nessuno giocava mai a saltare di sagoma in sagoma senza toccarne il
perimetro, come facevano i bambini, come Alice ancora si divertiva a
fare. Non sapendo cosa dire a Niccolò, guardava per terra mentre
camminava e continuava silenziosamente questo gioco, rinunciandoci
quando per rispettare le regole avrebbe dovuto compiere movimenti
evidenti. Poi la voce di lui la richiamò.
«Sai
già a che ora deve arrivare il treno?».
«Sì,
per mezzogiorno e mezza».
«A
meno che non ritarda».
“Ritardi,
congiuntivo” lo corresse mentalmente, ma non prese nemmeno in
considerazione la possibilità di farglielo notare.
«Speriamo
di no!» esclamò.
Lui
ridacchiò e disse: «Che sarà mai se tarda un pochino? Al massimo
avremo più tempo per stare in giro», poi, mentre uscivano e
svoltavano a destra, soggiunse: «Sarai già stata al famoso mercato
del binario 35, immagino».
«Certo».
Il
mercato si trovava a venti metri dalla stazione e una grande insegna
ne sovrastava l'entrata. Era principalmente all'aperto e si divideva
in più aree, una per ogni genere di cose immaginabili: come le disse
poco dopo Niccolò, erano pochissime le cose che non si potevano
trovare lì.
Non
sapendo da dove cominciare, Alice decise di lasciarsi guidare da lui.
“Alla fine” pensò, “è un modo come un altro per passare il
tempo ed è meglio che stare da sola ad esaurirmi”. Visitarono gran
parte del mercato, passando dai film alla musica, dalla musica alla
cucina orientale e dalla cucina orientale a quella europea e ai
videogiochi, ai banchi di collezionismo o a quelli che vendevano
spartiti musicali e qualche vecchio strumento: c'era veramente di
tutto lì dentro. Chiacchierarono di molte cose e, nonostante la
freddezza iniziale, senza accorgersene, Alice si sciolse. Niccolò
riusciva a farla ridere ed era forse facilitato in questo
dall'euforia che particolarmente in quella giornata la animava.
Quando giunsero alla Casa del Libro, una grande libreria e uno dei
pochi negozi al chiuso, entrarono senza pensarci troppo. Niccolò era
un vero ignorante in fatto di letteratura, non leggeva mai libri di
sua spontanea volontà, ma per assurdo era proprio nella biblioteca
della loro scuola che si erano conosciuti. Ascoltava invece musica di
tutti i generi, molti dei quali lei nemmeno sospettava esistessero e,
nel corso di quell'avventura mattutina, si era rivelato un esperto
anche in cucina e videogiochi, campi in cui Alice era letteralmente
negata. Mentre giravano tra gli scaffali, lei adocchiava vari libri
che le sarebbe piaciuto leggere ma che non avrebbe mai avuto il tempo
nemmeno di fissare per cinque minuti, e improvvisamente lui le
domandò: «Che dici, con cosa potrei iniziare per farmi una
cultura?».
«Davvero
sei interessato?» ridacchiò lei.
«Certo!
Non te lo avrei detto altrimenti» fece, indispettito. «Tu che mi
consigli?».
Alice
incrociò le braccia, pensierosa, e si mordicchiò il labbro
inferiore: «Non ne ho idea, non sono mica un professore».
«Proprio
per questo te lo domando. I prof sono fissati con quei libri
pallosi...».
«Non
tutti sono noiosi, dai».
«Va
bene» concesse lui, «Ogni tanto ne danno qualcuno carino, ma nella
maggior parte nemmeno li compro».
«E
meno male che si dice di non giudicare un libro dalla copertina»
disse Alice, «Ma scusa, leggi i libri del genere che più ti piace,
anche quella è cultura».
«Questo
è il tuo consiglio?».
«Beh,
sì. Come saprai non c'è nulla di peggio che dover leggere un libro
che non ci piace, perciò, dato che vuoi leggere, ti conviene
trovarne uno che ti attiri almeno un po'».
Niccolò
rimase in silenzio con le mani nelle tasche dei pantaloni ed il peso
del corpo spostato sulla gamba destra. «Non sei d'accordo?» gli
domandò infine Alice, notando che non diceva nulla. Lui le sorrise,
poi la scansò un pochino con un gesto gentile e si mise a correre.
Raggiunse uno scaffale e, alzandosi leggermente sulle punte, allungò
le dita fino all'ultimo ripiano e prese il primo libro che sfiorò.
Poi, senza dire una parola, dopo averlo guardato per qualche istante,
si diresse a passo deciso verso la cassa e pagò. Alice era rimasta
impietrita e lui, vedendola lì impalata, aprì le proprie labbra in
un sorriso che la ragazza trovò meraviglioso: «Ehi, statua greca,
vuoi venire?». Quindi aprì la porta e scomparve.
Lei,
sotto lo sguardo scocciato della bibliotecaria, senza correre per non
fare troppo rumore, raggiunse l'uscita e, una volta in strada, si
guardò intorno in cerca del ragazzo. Quasi subito due mani la
afferrarono per le spalle ed un verso spaventoso le rivelò la voce
di Niccolò, ma lei soppresse a malapena uno strillo per lo spavento.
Lui scoppiò in una fragorosa risata ed Alice, sebbene avrebbe
preferito fare l'offesa, sentì di non poter fare diversamente.
«Tu
sei matto» gli disse mentre riprendevano a camminare.
«Nah...
per quanto mi riguarda, seguo solo l'istinto e a volte mi diverte
affidarmi alla casualità».
«L'istinto
è quello che spinge il coniglio nella trappola».
Lui
sembrò colpito da queste parole, «Dimmi, lo hai letto da qualche
parte?».
«No,
è solo un pensiero, poi non dico sia sbagliato seguire l'istinto, ma
senza ragione non si va tanto lontano».
Lui
tacque e passeggiarono lungo una delle vie, poi lui, all'improvviso,
si illuminò e la prese per il polso: «Ti va di seguire l'istinto
per una volta?».
«Che
intendi?» esclamò lei allarmata.
«Stammi
dietro».
Niccolò
la trascinò tra la gente e si infilò, portandola con sé, in un
vicoletto che nessuno vedeva mai e che era leggermente in salita. «Ma
dove mi porti?!» protestò Alice. «Fidati, ne vale la pena».
Fece
un po' di resistenza ma poi si lasciò andare. La strada era stretta
e chiusa ai lati dalle alte pareti di alcune case circostanti
all'area del mercato. Camminarono, sempre in salita, per circa cinque
minuti, con lei che gli domandava di continuo dove fossero diretti e
lui che le rispondeva che era una sorpresa. Allora lei si arrestava e
minacciava di tornare indietro, poi lui la pregava quasi in ginocchio
e, addolcita, annuiva un po indispettita, ma riprendevano la marcia.
Andando sempre dritto, alla fine della stradina si ritrovarono in un
piccolo campo di fiori e lei ne rimase affascinata, ma Niccolò non
si fermò e la portò oltre. Erano giunti sulla cima di una
collinetta e lì lui la lasciò andare. Un vento leggero accarezzava
dolcemente i capelli ed Alice avanzò fino alla balaustra in legno,
oltre la quale scorse le linee ferroviarie passare come fili scuri
nelle verdi trame della pianura. Voltandosi riusciva a vedere invece
tutta la città arrampicarsi tra i suoi tetti e comignoli alle
pendici del monte. Non avrebbe mai immaginato potesse esistere un
luogo così.
«Ma...»
era senza parole.
«Bello,
vero?».
Lei
si voltò verso di lui e, per la prima volta, lo guardò per bene e
notò che il suo maglione era azzurro e i pantaloni bianchi. Che non
sembrava affatto il cattivo ragazzo che aveva immaginato ed
improvvisamente una domanda salì spontanea alle sue labbra.
«Ma
tu vieni spesso in stazione? E come conosci questo posto?».
Lui
la guardò per un po', poi rispose: «Ci venivo ogni mercoledì con
la mamma per accompagnare papà, che doveva lavorare fuori città
fino alla domenica, e tornavo in quel giorno sempre con mia madre per
venire a riprenderlo. Poi, quando uscivamo dalla stazione, ogni
tanto, quando ero già più grande e potevo aspettarlo da solo senza
che mamma saltasse una giornata di lavoro, papà mi portava qui,
dicendomi che era un posto speciale e raccomandandomi di non dirle
che me lo aveva fatto vedere...».
«E
tuo padre lavora ancora fuori città?».
«Sì,
è più corretto dire che ormai ci vive
fuori città. Mamma e papà hanno divorziato, tre anni fa, e lui si è
trasferito permanentemente altrove. Ogni tanto viene a trovarci, ma i
loro rapporti non sono dei migliori».
Alice
disse che le dispiaceva, ed era vero, poi tacque.
«Ad
ogni modo» riprese lui, «Ho pensato di condividerlo con te oggi».
Lei
lo guardò di sottecchi: «Ma perché l'hai fatto?».
«Perché
sei diversa, oggi in particolare» le disse.
«Diversa?»
ripeté lei imbarazzata.
«Non
so come spiegartelo. Sei sempre così rigida,
così contenuta, chiusa in te stessa, come se il mondo fosse stato
creato per ferirti e tu cercassi di proteggerti, continuamente.
Sembri più spontanea... solare. Più autentica, forse».
Alice
si sentì arrossire un poco, «Sono solo emozionata per l'arrivo di
mia cugina...».
Mentre
lo diceva, qualcosa scattò nella sua mente e lei tornò in sé, come
riprendendosi da un sogno che, per quanto bello, l'aveva
completamente strappata alla realtà per la sua durata.
«Mia
cugina!» disse a voce più alta, «Il treno! Oddio, è tardissimo!
Sono in ritardo! Scusami tanto, Niccolò, devo scappare, grazie per
avermi fatto compagnia stamattina».
Si
voltò e corse via più veloce che poteva, mentre il cuore le batteva
fortissimo in petto. Percorse a ritroso la strada che avevano fatto,
attraverso il piccolo campo di fiori, la stradina nelle case e il
grande viale principale del mercato. Una volta dentro la stazione
lesse il numero del binario e continuò a correre, sentendosi svenire
quando vide che il treno era già arrivato. Poi la vide, i lunghi e
vaporosi capelli rossi legati in uno chignon
perfetto, indossava uno dei suoi soliti maglioni colorati, portava
uno zaino su una spalla e con una mano trascinava un trolley azzurro.
Si videro e anche lei le venne incontro. Quando fu abbastanza vicina
lasciò zaino e trolley e le gettò le braccia al collo,
abbracciandola. Si strinsero forte, poi si guardarono e scoppiarono a
ridere senza motivo.
«Ma
dov'eri? Di solito sei puntuale come un orologio svizzero e poi
sembra che tu abbia appena partecipato alle corse dei quattrocento
metri!» esclamò Silvia.
«Aggiungi
con gli ostacoli» rispose Alice.
«Guarda
che capelli!».
Alice
sorrise e si portò una mano in testa, rendendosi conto di aver perso
il cappello, forse mentre correva. Poi fece spallucce e tra sé
pensò: “Fa niente, posso farne a meno”.
Salutò
anche la zia e suo cugino e insieme si incamminarono per chiamare un
taxi. Il nodo di ansia che da sempre aveva quelle mattine si era
sciolto grazie a Niccolò e il batticuore per la corsa si acquietò
presto, lasciandole dentro la consapevolezza che ora lei e Silvia
avrebbero potuto divertirsi insieme per un'intera settimana. Inoltre
– ma questo non poteva certo saperlo – se non fosse arrivata così
in anticipo, l'indomani non avrebbe sentito il campanello di casa
suonare e non avrebbe sorriso ritrovandosi di fronte un ragazzo con
occhi pieni di strane emozioni, qualche piercing e un cappello rosso
in mano.
Claire Knight.