martedì 11 febbraio 2014

Il fiore inatteso nel tempo rimasto.

Ciao a tutti,
come state? Spero bene. Io sto passando giorni un po' difficili ma sono felice di riuscire a trovare, oltre la tristezza, la spontaneità di un sorriso e di riscoprire la calorosa vicinanza degli amici. Vi presento finalmente un racconto che scrissi lo scorso anno in occasione di un concorso cui ci aveva invitato a partecipare la nostra professoressa di italiano (in verità, sarebbe più giusto dire che ci ha costretti dandocelo come compito per le vacanze di natale, ma questi sono dettagli :P) e che io ho molto a cuore. Si trattava di un periodo in cui non scrivevo da molto e nel corso del quale mi ero convinta di non saper più scrivere o di non aver nulla di bello da raccontare. Quello che leggerete, se vorrete leggerlo, è il frutto di numerosi tentativi, e sono fiera del risultato, sebbene non sia un capolavoro. Non speravo affatto di vincere, cosa che infatti non è accaduta, ma puntavo a sciogliere alcuni nodi che intricavano la mia sicurezza.
Il concorso aveva stabilito un tema riguardo cui scrivere, quello dell'attesa. Nella sua versione originale, avevo dovuto tagliare enormemente la parte finale del racconto perché era stato prefissato un limite di caratteri (12.000 inclusi gli spazi, se ricordo bene) ed io avevo scritto troppo. Non essendoci più alcuna costrizione, la settimana scorsa mi è venuta voglia di riscrivere questo finale, che mi ha dato tanta soddisfazione e mi ha riempita di gioia (sembra assurdo ma sì...). Ero preoccupata che si sentisse il distacco tra prima e dopo, perché sono una persona molto diversa da quella che ero un anno fa e penso che lo stile evolva con la persona, ma spero davvero vi possa piacere.
Dette queste cose, buona lettura, alla prossima.



Il fiore inatteso nel tempo rimasto.

Era una fresca giornata di inverno, il sole levandosi aveva fatto ritirare la cupa ombra delle montagne ad est, illuminando coi suoi primi raggi la pianura. La città sorgeva alle radici del monte, arrampicandosi in salita per una buona parte, ed era immersa nel verde, vi si mischiava, quasi si confondeva. Si trattava di uno dei pochi centri urbani che teneva al rispetto per l'ambiente e al progresso tecnologico allo stesso tempo. Il grande edificio bianco che sorgeva a nord era, infatti, la più importante e prestigiosa università di facoltà scientifiche della regione, mentre aree culturali di vario genere erano disseminate un po' ovunque verso sud-est. A occidente si sviluppava l'area più industrializzata, che comprendeva fabbriche e uffici, ma caratterizzata soprattutto dalla presenza della Stazione dei Treni, il più importante tramite di comunicazione con le altre città. Alla stazione facevano capo tutte le agenzie postali e, data l'assenza di un aeroporto, chiunque volesse partire doveva prendere il treno o viaggiare in automobile. La stazione era anche un luogo di incontro, c'erano sempre persone che andavano e persone che venivano, e si affiancava al mercato - detto del Binario 35 proprio per la sua posizione - dove si poteva trovare sempre un po' di tutto e a buon prezzo.
La stazione era, inoltre, il luogo dove Alice stava andando, stretta nel suo cappotto invernale e col berretto rosso calato sui capelli fino alle orecchie. Abitava in Via del Fiore, in uno dei quartieri orientali, praticamente dall'altro lato della città, ma aveva un buon motivo per voler percorrere tutta quella strada a piedi, anche se si trattava di chilometri: arrivava una persona speciale e lei andava a prenderla. L'arrivo del treno era previsto per mezzogiorno e mezza, ma lei, che si svegliava presto anche durante le vacanze, alle otto era già fuori di casa, ché non era in grado di aspettare senza far niente. “Meglio incamminarsi” si era detta, “piuttosto che rimanere qui a perder tempo prezioso”. Senza dubbio una volta lì si sarebbe ritrovata con almeno un'oretta d'anticipo da gestire in qualche modo, e il mercato avrebbe potuto sopperire alla sua indole impaziente, distraendola.
Passeggiando nel lungo viale alberato, ad un certo punto svoltò nella strada a destra. Vide il cartello giallo della fermata dell'autobus lì dove sapeva ed attese che passasse il numero 13, che l'avrebbe portata molto vicina a dove voleva andare. Arrivò e salì con un salto energico, carica di aspettative. Dentro era pieno e si stava stretti perfino in piedi, al punto che dopo un po' Alice cominciò a sentire caldo. Mentre cercava di tenersi stretta al gancio che le faceva da sostegno, improvvisamente si accorse che il cellulare vibrava nella tasca. Si affrettò a prenderlo e, quando lesse il numero sullo schermo, il suo viso si illuminò in un sorriso.
«Prooonto?» disse emozionata.
«Ciao, cugina!» rispose la voce dopo una leggera risata, «Ti ho svegliata, per caso?».
«Macché, sto già venendo in stazione!» esclamò Alice a voce alta, attirando su di sé le occhiate di chi le stava vicino. Arrossendo, abbassò il tono quasi ad un sussurro: «So che è presto ma non ce la facevo a stare in casa».
La persona all'altro lato dello schermo rise ancora, «Sempre la solita, Ali. Ma se aspetti a casa o aspetti in stazione cosa cambia? In ogni caso devi aspettare».
«Lo so, ma almeno al mercato mi diverto e non rischio di farmi aspettare».
«Come vuoi, cugina. Noi dovremmo arrivare per le 12:30, tu cerca di non stressarti troppo. A dopo!».
«Certo, a dopo!».
Chiusa la chiamata, Alice guardò il display ed erano appena le nove. "Il tempo non sa mai capire quale sia la velocità giusta". Con un sospiro fece scivolare il cellulare nella lunga tasca del cappotto blu e cercò nuovamente l'appiglio che aveva perso rispondendo al telefono, per non sbilanciarsi e cadere addosso a qualcuno. Di fermata in fermata erano molte di più le persone che salivano di quelle che scendevano e l'aria si era fatta man mano irrespirabile. Solo quando l'autobus giunse al capolinea vi fu un fuggi fuggi generale per metter piede in strada. Alice ricevette un po' di gomitate e qualcuno le pestò le scarpe, ma appena fu fuori poté finalmente respirare a pieni polmoni e ringraziare di essere ancora viva.
“Dovevano numerarlo 666, questo autobus. Un vero inferno”.
Sospirò, guardandosi attorno, e individuò subito la strada da percorrere. Era accaldata e aveva sudato molto dentro quel forno a quattro ruote, ma non poteva togliersi la giacca e prendersi una polmonite proprio in quel momento. Sistemandosi la borsa sulla spalla e qualche capello che si era messo fuori posto, si incamminò per il Vicolo del Granchio, che attraversava il quartiere etnico della città ed era sempre pieno di profumi e odori particolari. Non era ancora arrivata alla stazione, certo, ma era vicina, e si fermò a più di una bancarella mentre andava, attirata da qualche piatto tipico messo in bella mostra sotto le insegne colorate. Ogni volta sperava di incappare in uno di quegli stand dove offrivano cibo gratis per invogliarti ad entrare e comprare qualcosa, ma non era lei ad occuparsi di cucina in casa e della maggior parte delle cose che assaggiava sapeva solo che erano buone e che erano gratis, quindi filava avanti. Ma non era lì per una visita di piacere: in verità faceva di tutto per distrarsi. Aveva troppe energie ed era troppo emozionata per stare ferma: si poteva dire che attendesse quel giorno più di quanto un bambino il natale e più di qualsiasi altro desiderabile giorno dell'anno. E l'intensità del sentimento era la stessa, ogni volta la mattina si svegliava con la stessa gioia e la stessa ansia. Per questo aveva bisogno di indirizzare la propria euforia altrove, per non esplodere. Passeggiando tra i vapori e gli stendardi svolazzanti nell'aria, ogni tanto riprendeva a camminare a passo spedito, perché nonostante il notevole anticipo voleva assicurarsi di non perdere troppo tempo. Ad un angolo della strada, dove il Vicolo del Granchio cambiava nome in Vicolo della Medusa, si imbatté in un negozio di dolci e decise di comprare qualche biscotto da offrire anche alla zia e ai cugini, ma non resistette e buona parte la mangiò strada facendo.
Si ritrovò infine in una piccola piazzetta dalla quale si diramavano altre stradine e vicoletti. Senza la minima esitazione, ne imboccò una e proseguì finché finalmente vide delinearsi, oltre i tetti scuri delle case, il profilo alto e possente della stazione. Alice si mise a correre rischiando di perdere il cappello e, quando fu di fronte al grande arco d'accesso, entrò dentro come una furia. Sul grande schermo elettronico, tuttavia, ancora non riportavano il binario di arrivo per il suo treno.
«Okay, Alice. Con calma, placati! Non cominciare a fare l'isterica, sei in una stazione, in mezzo a tanta gente. Se incontrassi qualcuno che conosci non potresti fare altro che una cattiva figura».
Non si era nemmeno accorta di averlo detto ad alta voce, ma vedendo che il grande orologio segnava le 10:15 pensò che non ce l'avrebbe fatta: non poteva certo starsene due ore e un quarto seduta su una panchina a fissare il vuoto.
All'improvviso avvertì nell'aria un irresistibile profumo di caffè che la distolse immediatamente da ogni altro pensiero, subito si voltò e ricercò con gli occhi il bar, ristorante, o venditore ambulante che diffondesse quell'odore inebriante. Non era nessuno di questi tre, bensì una vera e propria caffetteria. Come aveva fatto una come lei, che non poteva stare senza almeno due tazze di caffé al giorno, a non vederla? Il pensiero che forse berne uno in quel momento le avrebbe fatto male non la sfiorò neanche e si fiondò verso il bancone.
«Signore, signore! Mi scusi, un caffè per favore!».
Uno dei camerieri più vicini, un bel ragazzo sui venticinque anni, si avvicinò e le sorrise amichevolmente: «Come lo vuoi?».
Alice ci pensò un attimo, osservando la bacheca coi prezzi: «Uhm... lungo, per favore».
«Benissimo», le fece l'occhiolino e si allontanò.
Lei si tolse la giacca e attese, poggiandosi coi gomiti al bancone. Si trattava proprio di una caffetteria carina, con i tavolini e le sedie piene di persone che, nel caos della stazione, cercavano lì un momento di pausa. Mentre spiava serenamente tra i volti, ne scorse due o tre familiari, uno in particolare lo vedeva spesso in quel periodo. Quando i loro occhi si incrociarono, Alice desiderò sparire. Distolse lo sguardo mentre il cameriere tornava porgendogli il caffè. Con la coda dell'occhio vide che qualcuno s'era alzato, ma non fece in tempo a realizzare dove fosse andato che...
«Alice, ciao! Come mai in stazione?».
Si voltò verso il ragazzo, «Ciao, Niccolò...», poi prese la tazzina e cominciò a bere, un po' a disagio. Niccolò era un ragazzo della sezione D, nella classe dell'aula accanto alla sua. Era alto, con capelli di un castano chiaro quasi biondo ed occhi scuri, e nel complesso carino, ma da un paio di anni si era fatto un piercing al sopracciglio e alcuni alle orecchie che ad Alice non piacevano affatto. Vestiva sempre molto alla mano, con vestiti comodi, e la sua aria trasandata e ribelle la inquietava leggermente. Era un'emozione irrazionale, un pregiudizio che si era fatta a pelle, e lei odiava etichettare gli altri a prima vista, ma non era riuscita ad evitarlo. Non gli si era mai avvicinata di sua spontanea volontà ma da un po' di tempo si incontravano, casualmente, in biblioteca e lui spesso le parlava.
«Come va, tutto bene?» domandò il ragazzo con un sorriso a trentadue denti.
«Sì» disse esitante, «sto aspettando Silvia, mia cugina, e mia zia: vengono a trovarci una volta l'anno e ci tengo molto...».
«Oh, e quando arriva il treno?».
«Tra un bel po', temo... non so che fare».
Aveva finito il caffè.
«Ti andrebbe di, non so, fare un giro con me al mercato?».
Alice lo guardò sorpresa, «Ma non sei in compagnia? Non si offenderanno?».
L'altro si volse a guardare indietro il gruppo di amici che rideva e giocava a carte, poi fece spallucce: «Nah, capirai, stanno allegri loro. A me fa piacere».
Alice allora accennò appena un sorriso e tentò ancora, ma non riuscì a declinare l'invito in alcun modo. Quindi accettò e si diresse alla cassa per pagare. All'inizio Alice non sapeva come comportarsi ed era tutta assorta nell'ansia di trovarsi sola con lui quando, d'un tratto, lui s'arresta sul posto. Lei si volta, allarmata, e subito domanda: «Che succede? Tutto a posto?». Lui si passa lentamente una mano tra i capelli, dorati sotto i raggi del sole mattutino, ed ha negli occhi vispi un fondo di indecisione.
«Uhm... no, scusa, mi era venuta in mente una cosa ma non fa nulla» disse infine, «Andiamo?».
Alice annuì e si strinse nel cappotto. Le vetrate che componevano la facciata soprastante all'arco d'ingresso della stazione riflettevano sul pavimento e sulle teste delle persone i loro colori accesi, ma nessuno giocava mai a saltare di sagoma in sagoma senza toccarne il perimetro, come facevano i bambini, come Alice ancora si divertiva a fare. Non sapendo cosa dire a Niccolò, guardava per terra mentre camminava e continuava silenziosamente questo gioco, rinunciandoci quando per rispettare le regole avrebbe dovuto compiere movimenti evidenti. Poi la voce di lui la richiamò.
«Sai già a che ora deve arrivare il treno?».
«Sì, per mezzogiorno e mezza».
«A meno che non ritarda».
Ritardi, congiuntivo” lo corresse mentalmente, ma non prese nemmeno in considerazione la possibilità di farglielo notare.
«Speriamo di no!» esclamò.
Lui ridacchiò e disse: «Che sarà mai se tarda un pochino? Al massimo avremo più tempo per stare in giro», poi, mentre uscivano e svoltavano a destra, soggiunse: «Sarai già stata al famoso mercato del binario 35, immagino».
«Certo».
Il mercato si trovava a venti metri dalla stazione e una grande insegna ne sovrastava l'entrata. Era principalmente all'aperto e si divideva in più aree, una per ogni genere di cose immaginabili: come le disse poco dopo Niccolò, erano pochissime le cose che non si potevano trovare lì.
Non sapendo da dove cominciare, Alice decise di lasciarsi guidare da lui. “Alla fine” pensò, “è un modo come un altro per passare il tempo ed è meglio che stare da sola ad esaurirmi”. Visitarono gran parte del mercato, passando dai film alla musica, dalla musica alla cucina orientale e dalla cucina orientale a quella europea e ai videogiochi, ai banchi di collezionismo o a quelli che vendevano spartiti musicali e qualche vecchio strumento: c'era veramente di tutto lì dentro. Chiacchierarono di molte cose e, nonostante la freddezza iniziale, senza accorgersene, Alice si sciolse. Niccolò riusciva a farla ridere ed era forse facilitato in questo dall'euforia che particolarmente in quella giornata la animava. Quando giunsero alla Casa del Libro, una grande libreria e uno dei pochi negozi al chiuso, entrarono senza pensarci troppo. Niccolò era un vero ignorante in fatto di letteratura, non leggeva mai libri di sua spontanea volontà, ma per assurdo era proprio nella biblioteca della loro scuola che si erano conosciuti. Ascoltava invece musica di tutti i generi, molti dei quali lei nemmeno sospettava esistessero e, nel corso di quell'avventura mattutina, si era rivelato un esperto anche in cucina e videogiochi, campi in cui Alice era letteralmente negata. Mentre giravano tra gli scaffali, lei adocchiava vari libri che le sarebbe piaciuto leggere ma che non avrebbe mai avuto il tempo nemmeno di fissare per cinque minuti, e improvvisamente lui le domandò: «Che dici, con cosa potrei iniziare per farmi una cultura?».
«Davvero sei interessato?» ridacchiò lei.
«Certo! Non te lo avrei detto altrimenti» fece, indispettito. «Tu che mi consigli?».
Alice incrociò le braccia, pensierosa, e si mordicchiò il labbro inferiore: «Non ne ho idea, non sono mica un professore».
«Proprio per questo te lo domando. I prof sono fissati con quei libri pallosi...».
«Non tutti sono noiosi, dai».
«Va bene» concesse lui, «Ogni tanto ne danno qualcuno carino, ma nella maggior parte nemmeno li compro».
«E meno male che si dice di non giudicare un libro dalla copertina» disse Alice, «Ma scusa, leggi i libri del genere che più ti piace, anche quella è cultura».
«Questo è il tuo consiglio?».
«Beh, sì. Come saprai non c'è nulla di peggio che dover leggere un libro che non ci piace, perciò, dato che vuoi leggere, ti conviene trovarne uno che ti attiri almeno un po'».
Niccolò rimase in silenzio con le mani nelle tasche dei pantaloni ed il peso del corpo spostato sulla gamba destra. «Non sei d'accordo?» gli domandò infine Alice, notando che non diceva nulla. Lui le sorrise, poi la scansò un pochino con un gesto gentile e si mise a correre. Raggiunse uno scaffale e, alzandosi leggermente sulle punte, allungò le dita fino all'ultimo ripiano e prese il primo libro che sfiorò. Poi, senza dire una parola, dopo averlo guardato per qualche istante, si diresse a passo deciso verso la cassa e pagò. Alice era rimasta impietrita e lui, vedendola lì impalata, aprì le proprie labbra in un sorriso che la ragazza trovò meraviglioso: «Ehi, statua greca, vuoi venire?». Quindi aprì la porta e scomparve.
Lei, sotto lo sguardo scocciato della bibliotecaria, senza correre per non fare troppo rumore, raggiunse l'uscita e, una volta in strada, si guardò intorno in cerca del ragazzo. Quasi subito due mani la afferrarono per le spalle ed un verso spaventoso le rivelò la voce di Niccolò, ma lei soppresse a malapena uno strillo per lo spavento. Lui scoppiò in una fragorosa risata ed Alice, sebbene avrebbe preferito fare l'offesa, sentì di non poter fare diversamente.
«Tu sei matto» gli disse mentre riprendevano a camminare.
«Nah... per quanto mi riguarda, seguo solo l'istinto e a volte mi diverte affidarmi alla casualità».
«L'istinto è quello che spinge il coniglio nella trappola».
Lui sembrò colpito da queste parole, «Dimmi, lo hai letto da qualche parte?».
«No, è solo un pensiero, poi non dico sia sbagliato seguire l'istinto, ma senza ragione non si va tanto lontano».
Lui tacque e passeggiarono lungo una delle vie, poi lui, all'improvviso, si illuminò e la prese per il polso: «Ti va di seguire l'istinto per una volta?».
«Che intendi?» esclamò lei allarmata.
«Stammi dietro».
Niccolò la trascinò tra la gente e si infilò, portandola con sé, in un vicoletto che nessuno vedeva mai e che era leggermente in salita. «Ma dove mi porti?!» protestò Alice. «Fidati, ne vale la pena».
Fece un po' di resistenza ma poi si lasciò andare. La strada era stretta e chiusa ai lati dalle alte pareti di alcune case circostanti all'area del mercato. Camminarono, sempre in salita, per circa cinque minuti, con lei che gli domandava di continuo dove fossero diretti e lui che le rispondeva che era una sorpresa. Allora lei si arrestava e minacciava di tornare indietro, poi lui la pregava quasi in ginocchio e, addolcita, annuiva un po indispettita, ma riprendevano la marcia. Andando sempre dritto, alla fine della stradina si ritrovarono in un piccolo campo di fiori e lei ne rimase affascinata, ma Niccolò non si fermò e la portò oltre. Erano giunti sulla cima di una collinetta e lì lui la lasciò andare. Un vento leggero accarezzava dolcemente i capelli ed Alice avanzò fino alla balaustra in legno, oltre la quale scorse le linee ferroviarie passare come fili scuri nelle verdi trame della pianura. Voltandosi riusciva a vedere invece tutta la città arrampicarsi tra i suoi tetti e comignoli alle pendici del monte. Non avrebbe mai immaginato potesse esistere un luogo così.
«Ma...» era senza parole.
«Bello, vero?».
Lei si voltò verso di lui e, per la prima volta, lo guardò per bene e notò che il suo maglione era azzurro e i pantaloni bianchi. Che non sembrava affatto il cattivo ragazzo che aveva immaginato ed improvvisamente una domanda salì spontanea alle sue labbra.
«Ma tu vieni spesso in stazione? E come conosci questo posto?».
Lui la guardò per un po', poi rispose: «Ci venivo ogni mercoledì con la mamma per accompagnare papà, che doveva lavorare fuori città fino alla domenica, e tornavo in quel giorno sempre con mia madre per venire a riprenderlo. Poi, quando uscivamo dalla stazione, ogni tanto, quando ero già più grande e potevo aspettarlo da solo senza che mamma saltasse una giornata di lavoro, papà mi portava qui, dicendomi che era un posto speciale e raccomandandomi di non dirle che me lo aveva fatto vedere...».
«E tuo padre lavora ancora fuori città?».
«Sì, è più corretto dire che ormai ci vive fuori città. Mamma e papà hanno divorziato, tre anni fa, e lui si è trasferito permanentemente altrove. Ogni tanto viene a trovarci, ma i loro rapporti non sono dei migliori».
Alice disse che le dispiaceva, ed era vero, poi tacque.
«Ad ogni modo» riprese lui, «Ho pensato di condividerlo con te oggi».
Lei lo guardò di sottecchi: «Ma perché l'hai fatto?».
«Perché sei diversa, oggi in particolare» le disse.
«Diversa?» ripeté lei imbarazzata.
«Non so come spiegartelo. Sei sempre così rigida, così contenuta, chiusa in te stessa, come se il mondo fosse stato creato per ferirti e tu cercassi di proteggerti, continuamente. Sembri più spontanea... solare. Più autentica, forse».
Alice si sentì arrossire un poco, «Sono solo emozionata per l'arrivo di mia cugina...».
Mentre lo diceva, qualcosa scattò nella sua mente e lei tornò in sé, come riprendendosi da un sogno che, per quanto bello, l'aveva completamente strappata alla realtà per la sua durata.
«Mia cugina!» disse a voce più alta, «Il treno! Oddio, è tardissimo! Sono in ritardo! Scusami tanto, Niccolò, devo scappare, grazie per avermi fatto compagnia stamattina».
Si voltò e corse via più veloce che poteva, mentre il cuore le batteva fortissimo in petto. Percorse a ritroso la strada che avevano fatto, attraverso il piccolo campo di fiori, la stradina nelle case e il grande viale principale del mercato. Una volta dentro la stazione lesse il numero del binario e continuò a correre, sentendosi svenire quando vide che il treno era già arrivato. Poi la vide, i lunghi e vaporosi capelli rossi legati in uno chignon perfetto, indossava uno dei suoi soliti maglioni colorati, portava uno zaino su una spalla e con una mano trascinava un trolley azzurro. Si videro e anche lei le venne incontro. Quando fu abbastanza vicina lasciò zaino e trolley e le gettò le braccia al collo, abbracciandola. Si strinsero forte, poi si guardarono e scoppiarono a ridere senza motivo.
«Ma dov'eri? Di solito sei puntuale come un orologio svizzero e poi sembra che tu abbia appena partecipato alle corse dei quattrocento metri!» esclamò Silvia.
«Aggiungi con gli ostacoli» rispose Alice.
«Guarda che capelli!».
Alice sorrise e si portò una mano in testa, rendendosi conto di aver perso il cappello, forse mentre correva. Poi fece spallucce e tra sé pensò: “Fa niente, posso farne a meno”.
Salutò anche la zia e suo cugino e insieme si incamminarono per chiamare un taxi. Il nodo di ansia che da sempre aveva quelle mattine si era sciolto grazie a Niccolò e il batticuore per la corsa si acquietò presto, lasciandole dentro la consapevolezza che ora lei e Silvia avrebbero potuto divertirsi insieme per un'intera settimana. Inoltre – ma questo non poteva certo saperlo – se non fosse arrivata così in anticipo, l'indomani non avrebbe sentito il campanello di casa suonare e non avrebbe sorriso ritrovandosi di fronte un ragazzo con occhi pieni di strane emozioni, qualche piercing e un cappello rosso in mano.


Claire Knight.

4 commenti:

  1. Great atmosphere, great sense of anticipation, the reader now wants to know what’ll happen between Alice & Nicolò...
    Ho finito il libro di racconti brevi da scrittori da ogni parte del mondo e questo tuo racconto non avrebbe demeritato un posto dentro la sua collezione. Davvero bello come racconto. Ora aspetto la grande opera in diritto d'arrivo...!!! ;-)

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    1. Hi David! Now I don't know if it's better to write in english or in italian! :-) Anyway, thank you. Grazie mille davvero. Non pensavo avresti riletto il racconto e sono felice che ti piaccia lo stesso con le modifiche che ho apportato. Ti farò sapere presto riguardo l'altro racconto, a presto! :D

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  2. Ritengo che tu debba continuare: la premessa è di ottimo livello!!!

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    1. Buongiorno Giampiero! Grazie mille, farò sempre del mio meglio. Passate una bella giornata e grazie per avermi dedicato un po' del suo tempo!

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